As part of the FLIPT (Intercultural Laboratory Festival of Theatrical Practices) organized by Teatro Potlach, in collaboration with ISTA (International School of Theater Anthropology), University of the Eurasian Theater, Teatro Proskenion and Linee Libere,Teatro Potlach (🇮🇹 Italy) did a series of streaming meetings on Zoom in the summer of 2020- A Battle Cry; Third Theatre.
Iben Nagel Rasmussen was invited, along with Eugenio Barba, to participate in the second chapter, that was streamed live on june 26th, 2020.
Two actors from Teatro Potlach, Nathalie Mentha and Daniela Regnoli ask questions to Iben Nagel Rasmussen about the importance of their first meetings in the beginning of the 80th in Fara Sabina and the traces it left behind. The director of Teatro Potlach: Pino di Buduo asks Iben about the group Farfa that emerged in the wake of a seminar organized by Pino himself in 1983 in the nearby village Farfa. ( Read about Farfa HERE)
Below is a transcripted extract from Ibens answers. ( in Italian )
UN GRIDO DI BATTAGLIA: TERZO TEATRO INCONTRI CHE FANNO CRESCERE moderatore Claudio La Camera
Nathalie Mentha:
Nel 1976 scappo con tre amici dalla scuola che frequentavo, la scuola del clown Dimitri che si trova nella parte italiana della Svizzera, scappo per vedere uno spettacolo dell’Odin a Milano. Quello spettacolo era “Come and the day will be ours”. Sono stata veramente colpita dall’energia degli attori e la sensazione che avevo era una sensazione fisica. Mi sentivo parte del movimento, del fluire dello spettacolo. E poi la voce di Iben Nagel Rasmussen che interpretava uno sciamano …..non avevo mai visto un attore usare la voce in quel modo. E questo spettacolo è stato il seme che mi sono portata dentro per due anni e mezzo, fino all’incontro che avrebbe cambiato la mia
6vita e fatto partire il mio percorso artistico. Era un seme prezioso, come la perla rossa della collana di Iben “ sciamano “ che aveva perduto durante lo spettacolo e che io avevo raccolto. Mi chiamo Nathalie Mentha, sono un’attrice svizzera nata a Ginevra da una famiglia di attori. Dal 1979 faccio parte del Teatro Potlach e vivo in Italia. Quando ho raccolto questa perla avevo 17 anni. Mi piaceva l’acrobatica, la letteratura, il circo e cercavo me stessa. Dopo aver visto l’Odin ho terminato l’anno di studio alla scuola Dimitri e sono tornata a Ginevra. Dopo due anni mi sono diplomata all’Accademia Superiore di Arte Drammatica. Ma non mi sentivo un’attrice tradizionale. Ho incontrato poi Jolanda Rodio, una cantante d’opera svizzera e pedagoga della voce con la quale volevo seguire un percorso di formazione che il mio fidanzato di allora stava già facendo. Ma Jolanda Rodio non mi ha accettato perché non voleva lavorare con una “ coppia “, nello stesso tempo però mi ha aiutato perché ha telefonato a Eugenio Barba che conosceva. Lo conosceva perché negli anni ’60 aveva partecipato ai seminari che l’Odin teneva in Danimarca. Eugenio le disse che in quel periodo non facevano seminari ma che a Fara Sabina c’era un piccolo gruppo che cercava attori. Ho preso il treno e senza avvertire mi sono presentata al Teatro Potlach. La sorpresa fu che Iben era lì. Inizialmente non ho potuto partecipare al seminario perché era già iniziato. Ma ho potuto assistere. Poi un giorno Iben mi chiede “ Vuoi lavorare con me fuori orario?”. Certo! E questa è stata la prima volta in cui ho lavorato con Iben sui risuonatori vocali. Il giorno seguente sono stata ammessa nel gruppo di lavoro. Alla fine del seminario Iben mi ha chiesto di fare un’improvvisazione. In quella improvvisazione non facevo niente. Indicavo solamente. Poi Iben ha chiamato Pino Di Buduo, il regista del Teatro Potlach, e me l’ha fatta ripetere. Ambedue dopo mi hanno detto “Questa è un’improvvisazione importante”. Io ricordo ancora l’atteggiamento di questa improvvisazione. È come qualcosa che attraversa qualsiasi tecnica, una presenza libera nell’essere. Questa libertà penso di averla raggiunta in quel momento perché mi ero resa conto, senza dirlo a nessuno, che ero nel posto giusto con le persone giuste, e che ero stata riconosciuta da loro. Potevo “ lasciare”, potevo “ stare” , ” non fare “. Dopo tanti anni mi rendo conto ora che sono sempre tornata a quella improvvisazione. Più precisamente torno sempre a cercare quell’ atteggiamento che in fondo era il “non fare”. Allora chiedo a te Iben:Tutto questo che ho raccontato ha senso per te?”
Iben Nagel Rasmussen:
Si, Nathalie, ha un senso profondo per me quello che dici. Ricordo molto bene l’improvvisazione di cui stai parlando. In quel momento si è rivelato quello che io chiamo “il corpo trasparente”. Non significa che il corpo scompare o non lo vedi. Ma diventa come il vetro che contiene una fiamma. Senza il vetro, cioè la tecnica, la fiamma non è protetta. Ogni piccolo respiro, ogni vento, la può spegnere. È difficile spiegarlo con parole. Comunque è vero quando dici che quel piccolo e importante episodio è successo in un ambiente dove ti sentivi protetta e come dici tu, riconosciuta. Riconosciuta per me vuol dire che le persone che ti stanno intorno ti vedono. Vedono te, non quello che vorresti essere, neanche quello che gli altri vogliono che tu sia. Succede tante volte, non soltanto nel teatro ma anche nella vita quotidiana che non siamo attenti, non vediamo quello che sta succedendo davanti ai nostri occhi, perché stiamo pensando. Durante le prove di uno spettacolo per esempio, può essere attraente mettere un attore o un’attrice in una scatola predestinata, un personaggio a cui si è dato le idee che si hanno già in mente. Non si vedono le altre possibilità che stanno lì, lampeggiando.
L’attore ha bisogno di essere spinto verso se stesso. Perché tutto nasce lì. In caso contrario la tecnica rischia di diventare un guscio, un vetro rotto senza fiamma. Mi è successo più volte di aver pensato guardando un attore “vai in questa direzione, ti vedo, sto registrando con tutti i miei sensi quello che fai”. Così creo con la mia presenza mentale l’ambiente di riconoscimento. Chiaramente non significa che non si può correggere e migliorare, lavorare o cambiare. Ma nel momento di improvvisazione di cui stai parlando, quella fiducia di attore- attrice verso chi sta guardando è fondamentale.
Quando dici non fare, non sono sicurissima di capire, ma forse intendi che sei tu ad agire perché le azioni ci sono, si vedono da fuori ma senza essere forzate. È come dire “non sono io che voglio andare, ma qualcosa mi porta”. Quando rappresento un personaggio, sono dentro, sono il fiume, sono anche le due sponde. Ma non sono sola. Intorno a me ci sono altri attori. C’è anche lo spettacolo. Insieme siamo un mare o meglio un grande tappeto con tanti fili intrecciati. Non so se ha senso per te questo che dico.
Daniela Regnoli:
Sono Daniela, sono attrice e dal 1976 lavoro con il Teatro Potlach. Quello che è stato il mio apprendistato, lo devo a un incontro che ho avuto nel 1973 quando vidi “La casa del padre”, lo spettacolo dell’Odin sulla biografia di Dostoevskij.
Era la prima volta che assistendo a uno spettacolo teatrale mi trovavo a pensare qualcosa di paradossale : avevo la sensazione che gli attori non “ recitassero “, che non ci fosse finzione. Tutto ciò che accadeva in scena, mi sembrava accadesse per la prima volta, in quel momento. Quando l’Odin tornò all’Università di Roma per un seminario di 3 giorni, andai. E poi poco dopo, alle soglie della mia laurea, presi una decisione: lasciai l’Università e partii per la Danimarca, per partecipare alla “ Brigata Internazionale “, un seminario di 6 mesi tenuto dagli attori dell’ Odin.. Ero felice ma anche in difficoltà. correre per 30 minuti alle 6.30 di mattina prima che il sole sorgesse, i duri esercizi di acrobatica che erano il mio incubo…. Ma quegli attori li avevo visti in scena e questo era sufficiente per trovare coraggio e motivazione. Durante gli anni seguenti, Iben, venisti più volte da noi, ti fermavi e lavoravi con il nostro training fisico e vocale. Un giorno Iben era in sala e assisteva a una prova filata di un nostro spettacolo “ Prima che la festa finisca “, da un romanzo di W. Goethe “ La vocazione teatrale di Wilhelm Meister “. Cantavo una canzone, un lied di Schubert, un valzer.
Poi d’un tratto la voce si spezzò. Continuai, cercavo di seguire la melodia. Ma la voce era fuori controllo. E il canto e le note si trasformarono a volte in parole soffocate e appena udibili. Dopo lo spettacolo ero nel camerino. Piangevo per questo insuccesso. Mi dicevo “ Proprio oggi che Iben è qui !“ Allora tu Iben venisti da me e sorridente mi dicesti “Tu non devi piangere perché quella canzone è proprio così che va cantata”. Io pensai che volessi solo consolarmi. Ma poi ho compreso che con quel suggerimento tu mi avevi indicato una strada nuova per me nell’affrontare un compito, un canto, una strada preziosa per non fermarsi al primo approccio ma lavorare e cercare vie per poterlo far crescere quel canto, fiorire. E magari ritrovare quella “verità” che senza che io lo volessi l’incidente mi aveva rivelato e a cui tu hai dato valore.
E così io ti domando Iben: perché in tutti questi anni è stato importante per te trasmettere la tua esperienza?.
Iben Nagel Rasmussen:
Daniela ricordo molto bene questa canzone e l’effetto che ha avuto su di me. Forse era proprio in quel momento che scoprii che la tecnica è importante. Ma è più importante romperla. Questo non significa far qualcosa di brutto di proposito come urlare, ma arrivare al cuore del vulcano. Se il cuore esiste. All’Odin Teatret sono sempre stati i vecchi attori ad insegnare ai giovani nuovi allievi. Quando io entrai nel gruppo nel 1966, erano Torgeir Wethal e Else Marie Laukvik che insegnavano gli esercizi. Ero molto lenta a capire fisicamente il flusso che vedevo in loro. Quando dopo 3-4 anni ho trovato da sola una serie di esercizi fisici (saltare, sedermi per terra, e soprattutto cadere fuori equilibrio per poi ritornare in piedi), lì ho capito quel flusso e ho capito subito che questi esercizi erano giusti, erano veri. Da quel momento anche io ho iniziato ad insegnare agli allievi che venivano all’Odin.
Quando cominciammo a girare con i nostri spettacoli all’estero, l’Odin Teatret era diventato famoso e anche alla moda. C’erano un sacco di giovani che volevano imparare il nostro allenamento. Da allora in poi abbiamo fatto sempre più seminari. Uno di questi era all’università di Roma nel 1975 dove per la prima volta ho visto Pino e Daniela. Dopo siete arrivato alla brigata internazionale qui a Holstebro. Molto dopo, Eugenio un giorno mi ha chiamato raccontandomi che il vostro teatro stava in difficoltà perché un attore voleva lasciare il gruppo. Mi ha chiesto di andare lì e dargli una mano. Sono arrivata a Fara Sabina la sera tardi. Era la prima volta che viaggiavo da sola, senza il gruppo, per fare un lavoro del genere. Ho cominciato subito la mattina dopo ad insegnare il training fisico e vocale, abbiamo lavorato dal mattino alla sera per una settimana. Vedevo lì che nonostante il pochissimo tempo, succedeva qualcosa di davvero sorprendente per me. E penso anche per voi. Mi rendevo conto che ero in grado di trasmettere una grossa parte della mia esperienza. L’incontro conteneva un profondo rispetto e anche amore verso il nostro mestiere e da parte mia anche verso ogni singolo attore. Era sorprendente. Perché non era voluto. Non era una cosa che stavo cercando. Insieme ho creato uno spazio dove sembrava tutto possibile, anche la mancanza di un attore che prima sembrava importante.
Perché continuo ad insegnare? Oggi mi sembra più essenziale che mai. Odin Teatret non è più di moda. Il nostro training, il modo di fare spettacoli, può anche sparire domani se non lasciamo un’eredità. Non attraverso le parole, ma incarnata in voi, negli attori.
Pino Di Buduo:
Ho ancora una domanda per Iben, perché a Fara Sabina poi è accaduto qualcosa di importante anche per lei. Un giorno Iben mi chiede se possiamo organizzare un laboratorio internazionale, non per noi del Potlach, ma per giovani attori che lei aveva incontrato in giro per il mondo. Le dico di sì. Individuo una sala nella torre dell’Abbazia di Farfa. Una sala che conoscevo e che era vuota, mai usata. Vado dal Priore, chiedo la disponibilità della sala e la ottengo. E’ così Iben che hai fatto nascere un gruppo. Iben te lo ricordi?
Iben Nagel Rasmussen:
Grazie a te Pino ho fatto quel seminario a Farfa. Avevo scelto di lavorare soltanto con attori che avevano già un’esperienza nel teatro di gruppo. Lavoravamo nel monastero di Farfa, un piccolo paese a soli 2 km sotto Fara Sabina. Erano sette attori: Dolly Albertin, Cesart Brie, Maria Consagra, Isabella della Ragione, Daniela Piccari, Sian Thomas e Pepe Robledo.
La sala stava in una delle torri del monastero di Farfa. C’era un pavimento di mattoni, grandi finestre verso le colline e un quadro della Madonna sul muro. Faceva freddissimo. Io ero seduta su una sedia e accanto a me c’era una stufa elettrica. Insegnavo gli esercizi che praticavo all’Odin. Erano “il samurai”, lo “slow-motion” e altri esercizi che avevo inventato io, tra i quali anche gli esercizi fuori equilibrio. Ma siccome il pavimento era di pietra e molto dura, volevo evitare che gli attori si facessero male. Per questo motivo abbiamo cambiato gli esercizi fuori equilibrio per evitare che le cadute non finissero per terra, ma prima. Un po’ difficile da spiegare con parole, ma diventò un esercizio migliore dell’originale. Abbiamo anche creato diverse danze con musica primitiva. Facevamo un piccolo montaggio sulla base delle danze tutte dirette verso quell’immagine della Madonna. Quando il seminario si è concluso, abbiamo deciso di continuare il lavoro all’Odin Teatret l’anno dopo. La mia idea con il gruppo era di non limitarmi alla trasmissione del training. Volevo montare anche un semplice spettacolo, preparare una parata con dei numeri da fare nelle strade e nelle piazze, e avevo in mente di cercare situazioni dove fare baratti culturali.
Come filo rosso per il montaggio di danze, abbiamo usato una storia argentina che parlava di come un bambino morto veniva messo in una sedia e celebrato. La madre danzava intorno finché cadeva per terra. Lì dove cadeva veniva sepolto il bambino. Con Farfa incontrai una figura con due danze e diventavo la madre del bambino. Partecipavo allora nello spettacolo. Per andare avanti con il gruppo di Farfa, rinunciai per la prima volta di essere nello spettacolo dell’Odin Il Vangelo di Oxyrhincus.
Abbiamo fatto un lungo tour in Italia preparato da Cesar Brie che aveva molti contatti. Partecipavamo al International Street Festival di Jelenia Gora organizzato da Alina Obidniak in Polonia, dove facevamo anche baratti nei quartieri poveri insieme a un gruppo del Galles, il Cardiff Theatre Laboratory, dove siamo stati inviatati diverse volte. Facevamo un seminario di un mese in Spagna, con training e montando scene con i partecipanti e facendo nostri spettacoli. Dopo i primi anni sono entrati altri attori: Tove Bornhøft, Martha Orbis, Isabel Soto e Pippo Delbono.
Il gruppo si è sciolto ma le esperienze che ho fatto con Farfa, i miei sbagli e tutta la ricchezza professionale e personale, è stato il fondamento per il mio lavoro successivo con il gruppo Il Ponte dei Venti che dura da più di 30 anni. Potrei scrivere un libro intero su Farfa. Forse un giorno lo farò. Grazie a te Pino, Daniela e al Potlach.
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